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Domanda:  Il vostro approccio è chiaramente di matrice “psicoanalitica”, visto che si basa su processi mentali “inconsci”, sulle difese, sui sogni, sul Falso sé, sull’importanza dei primi anni di vita nel formare la personalità adulta. Sembra però mancare tutta la parte “relazionale”, dove con tale termine indico sostanzialmente “l’interpretazione nel qui ed ora della relazione terapeutica” (il paziente si comporta con il terapeuta sostanzialmente come si comporta con gli altri significativi della sua vita) e  l’analisi delle cosiddette “comunicazioni per derivati” (Langs) e cioè delle comunicazioni verbali che il paziente fa in seduta che solo apparentemente sono riferite a persone “altre” rispetto al terapeuta, ma che invece indirettamente e inconsciamente il paziente le riferisce proprio a questo. Che fine fa nell’approccio del “deficit parentale” tutto ciò?

Risposta:  Il nostro modello, proprio perché come lei sottolinea è di stampo “psicoanalitico”, non disconosce né le “interpretazioni nel qui ed ora”, né le “comunicazioni per derivati”: entrambi i fenomeni esistono, sono anche abbastanza frequenti e sicuramente ci dicono molto sulla persona che abbiamo di fronte e sul suo modo di relazionarsi agli altri.
     Ciò che differenzia in questo senso il modello del “Deficit Parentale” è rappresentato da questi punti:
-  le interpretazioni del qui ed ora non sono e non devono essere l’”obiettivo primario” né l’unica strategia di una Psicoterapia. Spesso, invece, succede questo. Ogni cosa fatta o detta dal paziente è inevitabilmente riportata (“in carreggiata”) alla relazione terapeutica attuale. Vista così mi sembra oltre che una “forzatura” (un po’ come la psicoanalisi pretende di far rientrare a tutti i costi i pazienti nel suo rigido schema teorico di riferimento), anche un grave errore tecnico. Il paziente, infatti, ha bisogno di fare esattamente il contrario e cioè di vedersi dare delle spiegazioni al suo comportamento e quindi al suo disagio, che siano “collegate”, “interpretate” con le sue relazioni passate quando era bambino e non con quella con il terapeuta. Una Psicoterapia che lavori solo in questo senso non è a mio avviso molto diversa dalla psicoanalisi classica dalla quale proclama a voce alta di volersi distaccare: il paziente infatti non può permettersi di “toccare” il proprio dolore, né di dargli un nome, né tanto meno di far riemergere il suo Vero Sé. Tra l’altro, nella maggior parte dei casi, nel dire ‹‹Lei ora con me fa così, allo stesso modo come lo fa con gli altri e lo ha fatto in passato›› è implicito un disappunto del terapeuta, un “colpevolizzare” in qualche modo il paziente, sottolineando il suo modo “distorto e disfunzionale” di relazionarsi ad un terapeuta che invece sembra essere davvero neutrale e perfetto. Inoltre, troppo spesso le interpretazioni del qui ed ora vanno a cadere così ‹‹Fai così…come fai e facevi…>>. E poi? La spiegazione della sua modalità relazionale e l’empatia necessarie per aiutare davvero il paziente non gliele diamo? (<<Fai così con me perché da bambino hai vissuto in un clima di paura e di sfiducia nei confronti dell’altro…››, per esempio).
-  L’ “ingrediente davvero terapeutico” è dunque l’esatto opposto delle interpretazioni del qui ed ora, cioè le interpretazioni del “là e l’allora”, solo al limite in un secondo momento riconducibili alla relazione terapeutica. Ripeto, però, non è fondamentale, mentre interpretare l’infanzia del paziente questo sì è necessario. L’uso del “qui ed ora” credo si possa limitare a quelle situazioni particolarmente gravi e drammatiche (tipo le “tempeste affettive” nei borderline) perché lì è proprio il paziente che “porta” al posto di narrazioni, un agito, un comportamento plateale che vale più di mille parole. Sta allora effettivamente al terapeuta tradurre in parole chiare e comprensibili quello che il paziente sta “mettendo in scena (A. Miller). Interpretazioni legate subito al passato sarebbero inutili, incomprensibili per il paziente e credo anche per lui offensive.
-  c’è infine il rischio di “vedere comunicazioni per derivati che non esistono”. D’altronde non abbiamo uno strumento valido per verificarne l’esistenza. Voglio dire, il paziente per una volta potrebbe anche “dire quello che sta dicendo”, senza altri messaggi in codice paralleli.
Inoltre, tali messaggi in codice possono anche essere colti e tenuti bene in mente dal terapeuta (che li utilizzerà poi come riterrà opportuno), ma non necessariamente verbalizzati al paziente. Il quale potrebbe non comprendere, non riconoscere il messaggio in codice e nella peggiore delle ipotesi “non gradire” questo tipo di intervento.
     E pensare che i massimi esponenti che utilizzano l’approccio del qui ed ora e delle comunicazioni per derivati sono anche quelli che ritengono che in Psicoterapia si possa fare anche a meno dei sogni e della loro spiegazione, perché tanto nelle comunicazioni verbali poi i temi centrali conflittuali del paziente si manifestano comunque. Ma non è stato il nostro modello ad essere criticato come “non propriamente psicoanalitico” pur facendo tesoro del sogno come voleva il buon vecchio Freud perché “via regia per l’inconscio ?”. I “propriamente psicoanalitici “ sembrerebbe possano invece fare anche a meno della storica indicazione freudiana…

Dott. Alessandro Costantini

Domanda:  Nel mio lavoro clinico spesso mi ritrovo ad analizzare i sogni del paziente. Secondo me sono molto importanti, però a volte ho delle difficoltà nel comprenderli fino in fondo. Potreste darmi alcuni “suggerimenti” su come riuscire a gestirli e a riproporli in maniera proficua al paziente?

Risposta:  Sono d’accordo con lei sull’importanza dei sogni. Cerchi sempre non solo di interpretarli, ma anche di “evocarli” e di “richiamarli”, chiedendo sempre ad ogni seduta se sono stati fatti dei sogni.
Alcuni colleghi psicoterapeuti non danno a mio avviso la giusta importanza ai sogni, io credo onestamente per un loro problema irrisolto rispetto al toccare le loro emozioni rimosse che proprio grazie al sogno riemergono.
     Ci sarà la persona che al sentire il terapeuta pronto a ricevere il suo materiale onirico probabilmente produrrà molto e lo riporterà in terapia. Ci sarà anche chi, vuoi per resistenza, vuoi perché effettivamente non sempre è faci le ricordare i sogni, produrrà meno. E’ proprio in questo secondo caso che le suggerisco di insistere un po’ di più. E’vero che anche solo il “verbale” (e non) del paziente ci aiuta a capire il suo disagio e i suoi nodi conflittuali, ma è altrettanto vero che il sogno e la sua comprensione “velocizzano” tale processo (e quindi tutta la terapia) e lo “intensificano”, nel senso che danno “colore” e “voce” ad emozioni nascoste, tenute ben segrete nell’inconscio. Come in un quadro o film “surrealista” il sogno, collegato direttamente al processo primario della nostra mente, ci dà l’immagine di noi e degli altri così come noi effettivamente la percepiamo, senza censure, senza difese, senza razionalizzazioni o ipocrisie.
     Rispetto ai suggerimenti, posso darle alcune indicazioni generali, non esistendo per fortuna una sorta di “cabala” o “smorfia” che ci dica “questo significa questo”:

-  chiedere sempre al paziente un’ “associazione”, cosa le fa venire in mente il contenuto del sogno (personaggi, ambientazioni, dettagli, situazioni…). Nella maggior parte dei casi ciò che per noi poteva essere incomprensibile, sicuramente diventerà più chiaro. E’chiaro quindi come il sogno sia anch’esso, come tutta la terapia, co-costruito. Il terapeuta non deve associare lui al posto del paziente, perché il significato dei contenuti onirici è, ad un livello più specifico, soggettivo.
     Certo, in alcuni casi il paziente potrebbe davvero effettivamente darsi un’interpretazione dettata dalle sue difese (interpretare per esempio un sogno in cui viene “ucciso “qualcuno, come conseguenza di un film visto la sera prima o addirittura di un pasto mal digerito…) Altre volte, invece, la persona tenderà a dare una spiegazione positiva ed ottimistica anche se il contenuto onirico è evidentemente negativo e pessimistico. In entrambi queste due ultime situazioni, il terapeuta ha l’obbligo di “prendere le redini” del sogno e condurre il paziente per mano nel processo di spiegazione di questo.

-  Ad un li vello più generale, invece, i sogni sono nella stragrande maggioranza collegati al nostro passato, alla nostra infanzia. Questo è ancor più vero nei cosiddetti sogni “ricorrenti”, quelli che facciamo praticamente da sempre. E, in generale, le emozioni di base sono tendenzialmente riconducibili a tre grandi categorie: gioia, paura e rabbia. E’fondamentale analizzare l’emozione nel sogno e insistere nella terapia proprio su quei contenuti. Vedrà che il materiale rimosso diventerà anche verbalizzato attraverso i ricordi per esempio.

-  Rispetto ai vari personaggi, tendenzialmente essi rappresentano “parti” di noi stessi (per esempio, per una donna sognare una donna sexy e provocante come parte vitale e femminile di sé rimossa, ma che inconsciamente chiede di venire fuori) o persone a noi vicine che il sogno “ci fa vedere” come realmente a livello emotivo profondo le percepiamo (per esempio, sognare un uomo sconosciuto (magari con un particolare che ci fa venire in mente nostro padre) che ci insegue perché ci vuole fare del male, sicuramente ci dice molto sulla paura su cui si basa il rapporto con nostro padre, anche se a livello “conscio” non metteremmo mai in discussione il suo amore e il suo senso di protezione nei nostri confronti.

     Come vede, il sogno è come un film, un’immagine, ci dice più di mille parole…
Per ulteriori approfondimenti tecnico-clinici la rimando alla rubrica dedicata proprio al sogno.

Dott. Alessandro Costantini

Domanda:  Sono uno psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico. Da sempre seguo le “regole auree” di stampo clinico ortodosso: “neutralità e astinenza”. Recentemente, però, inizio a sentire delle difficoltà a mantenere questa posizione con il paziente. Spesso mi sento molto “vicino” a lui emotivamente, al suo disagio, alla sua storia. A volte vorrei esprimere la mia empatia, magari dando anche dei suggerimenti, rivelando aspetti o esperienze di me stesso, accettare telefonate, sms o e- mail se il paziente ne sente la necessità… Però alla fine mi blocco, non faccio niente di tutto questo per paura di infrangere le regole di cui sopra , ma comunque non riesco più neanche a tornare ad essere il “terapeuta di prima”. Sono forse in una crisi di identità professionale?

Riposta:  Caro collega, le confesso che sono felice di questa sua testimonianza. Per esperienza so che è difficile abbandonare un modello di riferimento a cui per anni si è prestata una fede assoluta, “cieca” direi. Quando però qualcuno, come lei, ha il coraggio e l’intelligenza per mettere tale modello in discussione (in tutto o in parte), beh io dico “ben venga la crisi!”. La crisi, come lei sa, è sempre indice di un cambiamento profondo, nel suo caso da ricollegarsi non solo al suo “fare terapia”, ma al suo “essere terapeuta”, che sono due cose ben distinte. E’la “persona” del terapeuta, oltre ad un modello teorico-tecnico indubbiamente fondamentale, a fare la differenza tra una psicoterapia efficace e una non efficace o addirittura deleteria.
     Io credo che un terapeuta debba essere, come lo definisce Alice Miller, un “testimone consapevole” nei riguardi del paziente, un “avvocato difensore” di colui il quale chiede il suo aiuto per uscire dal proprio disagio. Il terapeuta è sempre e comunque “dalla parte del paziente”, perché ne riconosce la sofferenza, perché prima di lui e come lui ha sofferto, perché sa perché ci si ammala, perché è realmente intenzionato ad aiutarlo.
     E’evidente quindi come la regola della “neutralità” vada a cadere, come non abbia senso rispettarla, come in definitiva sia stata inventata per permettere a certi tipi di “terapeuti maltrattanti” di reiterare su terzi (il povero paziente) il maltrattamento subito nell’infanzia, giustificando freddezza e distacco in virtù di una teoria e prassi clinica che raramente porta a vera “guarigione”.
Il concetto di “astinenza” è un’altra stronzata, che aiuta solo chi l’ha pensata e chi la mette quotidianamente in atto, non certamente il paziente: non ha senso presentarsi come “colui che ti aiuta” (e che è pagato profumatamente per questo…) e poi comportarsi con distacco e rimanendo fuori dalla relazione d’aiuto. E’una contraddizione in termini. E’un comportamento “dissociato, conflittuale e nevrotico”, che poco si addice a chi di mestiere dovrebbe curare la mente degli altri.
     Quindi, in conclusione, le suggerisco:

-  di passare quanto prima al TU, vedrà che non solo non succederà nulla di grave, ma anzi la relazione terapeutica ne risentirà in meglio.

-  di utilizzare serenamente le cosiddette “self disclosure”: rivelazioni molto semplici e spontanee che il terapeuta mette in atto rispetto alla propria persona, alle proprie esperienze, al proprio controtransfert. Anche qui vedrà la terapia prendere il volo. Non abbia timore delle “manipolazioni” de paziente. Il paziente “può anche” manipolare, ma sostanzialmente ha bisogno di noi e della nostra totale accoglienza e la manipolazione mi creda, benché per anni ci abbiano insegnato il contrario, è proprio l’ultimo dei pensieri della persona che si rivolge a noi.

-  di rispondere tranquillamente a telefonate, messaggi e quant’altro. Il paziente, se si è rivolto a noi, ha evidentemente già fatto esperienza sulla propria pelle di rifiuti, indifferenza e abbandoni. Anche solo “per logica” non facciamo lo stesso anche noi, ma facciamo esattamente il contrario. Qualora tali contatti extra-seduta risultino eccessivi (eventualità, devo dire, rara), lei immagino non avrà alcun problema a analizzarli insieme al paziente. Questo, però, solo in un secondo momento, non prima di avergli comunicato piena accoglienza e apertura emotiva.

Dott. Alessandro Costantini

2 commenti:

  1. Mi chiamo Annalisa Gaspari non sono psicoterapauta ma una Pedagogista...da un pò di tempo seguo bimbi e genitori sopratutto all'interno di gruppi di confronto e condivisione a livello educativo e sono felice di leggere quanto sopra relativamente alla relazione con il paziente. Anch'io non credo nella neutralità e nel chiamarsi fuori dalla relazione educativa, d'apprima lo facevo e mi sono resa conto che era una schermatura, un "mettersi nel pulpito! Ora ho capito che era per lo più una forma di difesa e di controllo...come dire io sono il professionista e tu sei la persona problematica, io ti indirizzo e tu ascolti e metti in pratica. Sempre più sto toccando con mano quanto sia deleterio questo approccio e quanto sia ancora figli di un modello educativo autoritario che purtroppo ancora ci portiamo dentro e riversiamo nel nostro lavoro e nelle nostre vite. Attualmente mi sento molto più in cammino e cerco sopratutto di accogliere e di ascoltare e ne sto vedendo i risultati...molte persone si stanno avvicinando a me e quando io rivelo le mie sofferenze sopratutto come mamma molte altre mamme si sentono comprese e si aprono al confronto. Felice di avervi incontrati Annalisa

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  2. Gent.ma Annalisa
    Hai pefrettamente ragione quando dici che la neutralità è una forma di difesa; rappresenta una distanza che volgiamo frapporre rispetto a ciò di cui abbiamo paura e per questo vogliamo tenere lontano da noi.
    Fa piacere constatare che anche altre professionalità coinvolte nelle relazioni di aiuto la pensino diversamente rispetto ai soliti approcci educativi basati fondamentalmente su modelli impari e autoritari.
    Vedrai che molte altre persone si avvicineranno sentendo la tua spontaneità

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